Stalking: per la condanna basta l’accusa
- avvocatocapizzano
- 14 lug 2016
- Tempo di lettura: 3 min

Più facile condannare il colpevole di stalking: chi tormenta un’altra persona – sia essa un ex fidanzato, un vicino di casa, una persona conosciuta su una chat di internet, ecc. – tanto da provocare in quest’ultima un grave stato di ansia e costringerla a cambiare abitudini di vita (basterebbe una semplice assenza dal lavoro, il modificare il percorso di strada per rientrare a casa, l’assumere tranquillanti, ecc.) compie il delitto di stalking, ossia di atti persecutori [1]. Ma attenzione: per la condanna del colpevole basta la semplice dichiarazione della vittima, qualora ritenuta attendibile dal giudice. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza[2]: un avvertimento a tutti i disturbatori professionali che, anche nei rapporti di vicinato e, in particolar modo, in quelli tra condòmini, sono soliti perseguitare le loro prede sino a costringerle a modificare aspetti essenziali della loro quotidianità.
Difatti, il reato di stalking scatta quando qualcuno, in modo reiterato (ma bastano anche pochi episodi) minaccia o molesta un’altra persona in modo da:
provocare a quest’ultima un grave stato di ansia o di paura;
oppure da provocarle un fondato timore per l’incolumità propria o di un familiare o di persona al medesimo legata da relazione affettiva;
oppure da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
Perché si configuri lo stalking – dice poi la norma – è necessario che il comportamento sia reiterato. Questo sicuramente significa che non basta una singola azione; ma, per alcune sentenze, sono stati sufficienti anche due semplici episodi a far scattare l’incriminazione del reo. Ciò che conta è la gravità dei comportamenti.
Di recente, poi, la giurisprudenza ha riconosciuto la possibilità che lo stalking si realizzi anche nei rapporti tra vicini di casa, elaborando la figura del cosiddetto stalking condominiale, che si verifica tutte le volte in cui il condòmino molesta e perseguita il o i vicini di casa con una serie di azioni dirette a:
– ingenerare in loro un fondato timore per l’incolumità propria o di un familiare;
– esasperarli così tanto da costringerli a cambiare le proprie abitudini di vita.
La prova dello stalking
La sentenza in commento tratta un aspetto delicato dello stalking: quello della prova delle condotte persecutorie. Queste ultime, materializzandosi spesso in atti che non possono essere documentati (si pensi a un pedinamento) o che, avvenendo in piena segretezza, non possono essere dimostrati con testimoni, difficilmente potrebbero anche essere puniti. Così, in questi casi, la legge consente di arrivare a una condanna anche sulla base delle semplice accuse della vittima nei confronti dell’imputato. A riguardo, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che le dichiarazioni della persona offesa del reatopossono da sole bastare per giungere a una sentenza di condanna dell’imputato, sempre che tali dichiarazioni siano ritenute attendibili e credibili dal giudice. Il magistrato, nella propria decisione, dovrà comunque motivare le ragioni per cui ritiene degno di fiducia il racconto reso dalla vittima e la sua “testimonianza”.
Detto in parole semplici, se nel processo non vengono portate altre prove del reato oltre alle sole dichiarazioni, rese in dibattimento dalla vittima stessa, queste ultime sono più che sufficienti ad arrivare a una sentenza di colpevolezza. Come dire che l’adagio popolare “È la sua parola contro la mia” non vale nell’abito del processo penale.
Le accuse esposte dalla persona offesa del reato devono quindi trovare riscontri oggettivi, come ad esempio, nelle conseguenze dei comportamenti persecutòri sulla condizione di vita della persona offesa, costretta ad assentarsi dal lavoro ed assumere tranquillanti; eventi, quest’ultimi, che dimostrano, secondo la suprema Corte, un mutamento delle abitudini di vita e l’insorgere di un grave stato d’ansia nella vittima.
La prova dello stalking – dice la Cassazione – e del grave e perdurante stato d’ansia o di paura generato nella vittima deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dal colpevole [3] .
Lo stalking viene, di norma, associato a comportamenti che attengono alla sfera sentimentale e affettiva, come nel caso di condotte poste ai danni di un ex amante, di una donna o di un uomo le cui attenzioni non vengono ricambiate, di un ex coniuge a seguito della separazione o del divorzio. Tuttavia, le vittime non sono sempre partner ed “ex”, in particolar modo donne; lo stalking, infatti, ben può configurarsi al di fuori di una relazione sentimentale. È infatti sufficiente il compimento di più atti molesti o minatori che ledano l’altrui sfera psico-affettiva o inducano la vittima a mutare stile di vita. In quest’ottica si colloca il cosiddetto “stalking condominiale”, ormai divenuto una realtà, come dimostra anche la sentenza in commento.
[1] Art. 612-bis cod. pen.
[2] Cass. sent. n. 26878/2016 del 28.06.2016.
[3] Cass. sent. n. 14391/2012.
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