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Mantenimento alla donna che decide di dedicarsi alla casa

  • Immagine del redattore: avvocatocapizzano
    avvocatocapizzano
  • 25 set 2016
  • Tempo di lettura: 6 min

Non basta un titolo professionale in capo all’ex moglie per evitare di versarle il mantenimento. L’assegno mensile alla donna, conseguente alla separazione dei coniugi, spetta anche se questa abbia un potenziale lavorativo (perché dotata di laurea e iscritta in un albo professionale) se, per una scelta condivisa con il marito, abbia deciso di dedicarsi alla casa e rinunciare alla libera professione. È quanto chiarito dalla Cassazione con una ordinanza pubblicata ieri [1].

Secondo la Corte, in caso di separazione non serve appellarsi al fatto che la donna abbia titoli per esercitare una determinata professione (nella specie, quella di commercialista per via dell’iscrizione al relativo albo) per escludere il pagamento, da parte dell’ex marito, dell’assegno di mantenimento: se «l’impiego» delle competenze della donna per il ménage quotidiano della casa e della famiglia è stato frutto di «una scelta condivisa» durante il matrimonio, scelta «finalizzata a limitare il tempo dedicato al lavoro e a non svolgere l’impegnativa attività professionale» proprio per «non sottrarre ulteriore tempo alla vita familiare», allora quest’ultima ha diritto a essere mantenuta. La rinuncia a una carriera professionale, fatta anche nell’interesse dell’ex marito, ha diritto a un compenso dopo la separazione. E questo compenso si chiama assegno di mantenimento. Che spetta almeno finché non si metta in proprio e guadagni almeno quanto l’ex marito.

LA SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 13 giugno – 21 settembre 2016, n. 18542

Presidente Ragonesi – Relatore Bisogni

Fatto e diritto

Rilevato che in data 22 aprile 2016 è stata depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta

Rilevato che

  1. II Tribunale di Torino, con sentenza n. 6939/2008, ha pronunciato la separazione personale dei coniugi E.V. e M. A. C., ha respinto le reciproche domande di addebito e ha disposto a carico del Celia un assegno mensile di mantenimento di 750 euro in favore della V..

  2. La decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Torino con sentenza n. 2354/13.

  3. Ricorre per cassazione M. A. C. affidandosi a sei motivi di ricorso tutti relativi alla insussistenza del diritto all’assegno e alla quantificazione del suo ammontare.

  4. Si difende con controricorso E.V..

Ritenuto che

  1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c. c. e 1′ omesso esame di un fatto decisivo della controversia. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello ha adottato dati non comparabili per accertare la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento richiesto dalla V. in quanto ha preso in considerazione il suo reddito imponibile e non quello netto.

  2. Il motivo appare inammissibile o, comunque, infondato perché sebbene la Corte di appello abbia fatto riferimento al reddito imponibile dichiarato dal ricorrente ha poi compiuto una valutazione più articolata della sua capacità economica reale che tiene evidentemente conto dell’imposizione fiscale sul reddito.

  3. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c..

il ricorrente censura la sentenza di appello in quanto ha considerato come parti del reddito anche i versamenti integrativi di natura volontaria.

  1. La censura appare infondata in quanto sono stati correttamente presi in considerazione dalla Corte distrettuale quel versamenti che attestano l’entità del reddito disponibile del ricorrente ai fini della decisione sul diritto della V. a un assegno di mantenimento.

  2. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. Ii ricorrente ritiene che la Corte di appello abbia violato l’art. 156 c.c. laddove ha ritenuto che la V. non disponga di redditi propri sufficienti ad assicurarle un tenore di vita analogo a quello goduto nel corso del matrimonio, tenore di vita che la Corte di appello ha ricostruito assumendo erroneamente che la V. era in condizione di non lavorare perché poteva contare sulle capacità reddituali del marito. Contesta altresì il ricorrente la quantificazione dell’assegno in quanto idonea a creare una sperequazione a vantaggio del coniuge pretesamente debole.

  3. Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia. il ricorrente sostiene che la Corte di appello ha omesso di fatto la valutazione del patrimonio immobiliare della V. e ha compiuto una arbitraria valutazione di equivalenza “numerica” delle consistenze patrimoniali dei due ex coniugi.

  4. I due motivi appaiono inammissibili in quanto intesi a una riedizione del giudizio di merito. Sono inoltre infondati quanto alla pretesa omessa valutazione di fatti decisivi come la consistenza patrimoniale degli ex coniugi, valutazione comparativa che la Corte di appello ha compiuto analiticamente valutando anche le ricadute dei due patrimoni sul comune tenore di vita. Infine la Corte distrettuale ha ritenuto legittimaiaente, in assenza di prova contraria, che l’impiego delle capacità lavorativa della V. abbia costituito l’oggetto di una scelta condivisa e finalizzata a limitare il tempo dedicato al lavoro, dalla V., all’attività di ricercatrice e a non svolgere l’impegnativa ulteriore attività di commercialista per non sottrarre ulteriore tempo alla vita familiare, in assenza di una impellente necessità di acquisizione di ulteriori redditi oltre a quelli già percepiti dai coniugi dallo svolgimento dalla predetta attività di ricercatrice universitaria e di rappresentante e agente commerciale.

  5. Con il quinto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c il ricorrente ritiene che la Corte di appello abbia violato l’art. 156 c.c. laddove ha omesso di considerare che il tenore di vita attribuito alla V. nel corso del matrimonio era dipendente anche dal suo patrimonio immobiliare.

  6. Anche questo motivo consiste in una richiesta di rivalutazione del merito della controversia basata sul preteso omesso esame delle condizioni patrimoniali della V. ai fini. della ricostruzione del tenore di vita familiare. Omesso esame che non emerge affatto dalla lettura della motivazione che prende in esame la analoga censura mossa alla decisione di primo grado.

  7. Con il sesto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. Il ricorrente ritiene che la Corte di appello non abbia valutato adeguatamente la capacità lavorativa e reddituale della V. in quanto abilitata all’esercizio della professione di commercialista.

  8. Valgono anche per questo motivo le considerazioni già svolte per i precedenti. Si tratta di un profilo di merito che la Corte di appello ha già valutato rilevando che la V. svolge attività di ricercatrice universitaria dalla quale ritrae un reddito significativamente inferiore a quello del C. mentre non è contestato che la V. non abbia mai svolto, sebbene abilitata, l’attività professionale di commercialista. La Corte distrettuale ha valutato inoltre la difficoltà di intraprendere ora tale attività professionale.

  9. Sussistono pertanto i presupposti per la discussione in camera di consiglio del ricorso e, qualora il Collegio condivida la relazione, per il suo rigetto.

La Corte letta la memoria difensiva del ricorrente rilevato che anche la comparazione dei redditi netti imponibili dei due coniugi, operata sulla media degli ultimi redditi percepiti e comprendendo anche i versamenti integrativi effettuati dal C. attesta la maggiore capacità reddituale di quest’ultimo;

rilevato che la Corte di appello, all’esito della valutazione e comparazione dei beni immobiliari dei coniugi C. e V. ha espresso un giudizio di sostanziale equivalenza che non può essere sindacato in questa sede attesa la analiticità e completezza della motivazione alla pari di quanto la Corte distrettuale ha ritenuto circa la effettiva capacità lavorativa della V. e il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;

ritenuto che la relazione sopra riportata deve essere pertanto condivisa con conseguente rigetto del ricorso e condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.100 euro di cui 100 per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso princIpa e a norma dell’art. 13, comma 1 bis, dello stesso articolo 13.

[1] Cass. ord. n. 18452/16 del 21.09.2016.

Fonte: laleggepertutti.it

 
 
 

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