La convivenza va registrata all’anagrafe del Comune?
- avvocatocapizzano
- 20 dic 2016
- Tempo di lettura: 5 min
Il decreto Cirinnà ha modificato notevolmente il concetto e la regolamentazione delle convivenza di fatto, stabile e formalizzata: tale è la situazione di due persone, di sesso diverso, che vivono sotto lo stesso tetto in modo non occasionale e che si costituisce mediante dichiarazione all’Anagrafe. Fuori da questa ipotesi c’è la convivenza di fatto non formalizzata, che non produce alcun effetto personale e patrimoniale e nessun diritto o dovere reciproco tra le parti.
Solo nel primo caso i conviventi devono dichiarare all’Anagrafe di coabitare: il risultato è che risulteranno, successivamente, nello stato di famiglia anagrafico.
Le parti, però, restano libere di non dichiarare alcunché all’Anagrafe, pur formando una coppia di fatto (in tal caso, però, non sarà regolata dal decreto Cirinnà).
Quando c’è convivenza di fatto formalizzata?
Il Decreto Cirinnà definisce «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. I partner possono firmare un contratto di convivenza.
I requisiti perché si possa dire instaurata una convivenza di fatto sono i seguenti:
i conviventi devono essere due persone: null’altro è specificato, possono quindi essere un uomo e una donna, oppure due uomini oppure due donne;
devono essere maggiorenni;
devono essere unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, proprio al pari dei coniugi sposati (i quali sono tenuti a tali obblighi per legge);
non devono essere già sposate tra di loro o con altre persone, né legate da rapporti di unione civile; devono quindi avere uno stato libero. Ne segue che una persona prima sposata e poi separata (senza ancora essersi divorziata) che inizia a coabitare con un’altra persona non può, secondo la definizione di legge, definirsi convivente di fatto. È, a tal fine, necessaria la sentenza di divorzio;
non devono essere vincolate tra loro da rapporti di parentela, affinità o adozione; la disciplina della convivenza di fatto non si applica pertanto ai casi in cui a convivere sono ad esempio nonni e nipoti, fratelli e sorelle, nipoti e zii o zie;
devono coabitare e avere dimora abituale nello stesso Comune. Tale requisito, pur non essendo indicato nella definizione di convivenza si ricava dalla norma sull’iscrizione all’anagrafe che attesta la stabile convivenza, in forza della quale i conviventi autocertificano il loro status dichiarando di coabitare nella stessa casa.
Se i due partner vogliono risultare conviventi stabili devono effettuare una dichiarazione all’anagrafe civile del Comune di residenza [1]. In particolare, dovranno dichiarare all’ufficio dell’anagrafe di dimorare nello stesso Comune e di coabitare nella stessa casa. Tale dichiarazione può essere sottoscritta di fronte all’ufficiale d’anagrafe oppure inviata al Comune per fax o per via telematica [2]. In tal modo i dichiaranti acquistano lo status di conviventi, potendo ottenere il certificato di stato di famiglia che attesta legalmente la loro convivenza.
La dichiarazione all’anagrafe va fatta non solo al momento della costituzione di una nuova convivenza, ma anche all’atto dei mutamenti successivi, intervenuti nella compagine famigliare.
Quando c’è convivenza di fatto non formalizzata
Se la convivenza non deve essere formalizzata ai sensi della legge Cirinnà, la dichiarazione all’Anagrafe non è necessaria per dirsi effettivamente conviventi, anche se il rapporto è ormai stabile e duraturo. Secondo una sentenza del Tribunale di Milano [3] la dichiarazione anagrafica va quindi considerata come strumento privilegiato di prova, e non anche come elemento costitutivo del rapporto. Infatti la legge [4] richiama la dichiarazione anagrafica «per l’accertamento della stabile convivenza», ossia per la verifica di uno dei requisiti costitutivi, ma non per accertarne l’effettiva esistenza fattuale.
In tal caso due persone si considerano stabilmente conviventi quando vivono insieme con continuità e regolarità condividendo valori e modelli di vita e nella reciproca assistenza morale e materiale. Nella prassi si è fissato anche un termine minimo per considerare stabile la convivenza: almeno due anni secondo la giurisprudenza.
Le differenze tra convivenza di fatto formalizzata e non
Abbiamo detto che, per attivare una convivenza di fatto “formalizzata” ai sensi della legge Cirinnà è necessaria l’iscrizione all’anagrafe del proprio Comune. Ma quali sono gli effetti di tale attività? Quali le differenze, quindi, tra una convivenza formalizzata e una che, invece, resta solo «di fatto»? In buona sostanza, se ci si adegua al dettato della legge e si formalizza la coppia, quali sono i vantaggi che si ottengono? Eccoli di seguito elencati.
Assistenza morale
I due conviventi hanno il diritto/dovere al sostegno reciproco nella sfera affettiva, psicologica e spirituale e anche l’obbligo di comunicare tutte le informazioni che possono influire sulla vita familiare e sul suo indirizzo.
I conviventi hanno un dovere reciproco di solidarietà analogo a quello esistente tra i coniugi.
Assistenza materiale
Ciascun convivente può pretendere dall’altro un sostegno per assolvere i compiti di cui si è fatto carico nella ripartizione degli oneri familiari e per soddisfare le esigenze di carattere primario (proprie e dei figli) (cibo, vestiario, trasporti, studio, cura in caso di malattie). Quindi ciascuno dei conviventi, in relazione alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo, deve contribuire ai bisogni della famiglia.
I conviventi possono firmare un contratto di convivenza in modo da regolare anche gli aspetti patrimoniali come il mantenimento.
Nessun obbligo di fedeltà
I conviventi non hanno un reciproco obbligo di fedeltà, come invece le coppie sposate. Non è previsto obbligo di risarcimento in caso di fine della convivenza.
Non è possibile, nel contratto di convivenza, stabilire un impegno ad avere uno o più figli o regole che impongono o meno l’uso di contraccettivi.
Diritti in caso di malattia o morte del convivente
In caso di malattia o di ricovero, i conviventi hanno il diritto reciproco di visita, di assistenza e di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari.
Ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati:
in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute;
in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
La designazione è effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone.
Permessi per infermità del convivente
In caso di documentata grave infermità del convivente o in caso di sua morte il lavoratore ha diritto a un permesso retribuito di 3 giorni lavorativi all’anno, purché la stabile convivenza risulti da certificazione anagrafica.
Congedo per motivi familiari
In caso di gravi motivi familiari al convivente può essere concesso un congedo di due anni nell’arco della vita lavorativa e può essere utilizzato anche in modo frazionato. Il congedo non è retribuito.
I gravi motivi devono riguardare:
– il convivente (componente della famiglia anagrafica indipendentemente dal grado di parentela);
– i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle anche non conviventi, nonché i parenti portatori di handicap (può riguardare anche il coniuge se ad esempio il convivente è separato).
[1] Art. 4 DPR 223/89 richiamato dall’art. 1 c. 37 L. Unioni Civili.
[2] Art 13 c. 3 DPR 223/89 e art. 38 DPR 445/2000.
[3] Trib. Milano, sent. del 31.05.2016.
[4] Art. 1, comma 37, della legge 76/2016
Fonte: La legge per tutti

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