Convivenza: cosa conviene fare?
- avvocatocapizzano
- 27 gen 2017
- Tempo di lettura: 5 min

Con la legge Cirinnà [1], anche le coppie che convivono hanno ottenuto un formale riconoscimento. Non che prima non lo avessero, ma erano solo dei diritti riconosciuti, qua e là, nelle aule dei tribunali, ma privi di una regolamentazione organica. Proprio l’assenza di una legge dedicata alle coppie di conviventi faceva sì che queste dovessero puntualmente andare dal giudice per ottenere gli stessi diritti conferiti alle coppie sposate; il ragionamento si poggiava sul principio di uguaglianza sostanziale previsto dalla Costituzione e sul riconoscimento della «famiglia» come relazione sostanziale, a prescindere dal vincolo del matrimonio.
Con le nuove modifiche, la convivenza può realizzarsi in tre diverse forme:
una semplice convivenza di fatto: la coppia si limita a convivere sotto lo stesso tetto in modo stabile e continuativo;
una convivenza registrata: la coppia in tal caso si limita a presentare una dichiarazione di convivenza all’anagrafe;
una convivenza regolata da un contratto di convivenza.
La convivenza semplice o di fatto
Se la coppia non intende formalizzare la convivenza, né registrarla al Comune, si parla di «convivenza semplice» e si rimane nella stessa condizione anteriore alla Legge Cirinnà. Pochi i diritti che, peraltro, richiedono quasi sempre l’intervento del giudice e una causa, visto che l’amministrazione è poco propensa a riconoscere qualcosa che non è formalizzata quantomeno con una registrazione all’anagrafe. Una delle conseguenze della convivenza semplice è che essa determina la perdita dell’assegno di mantenimento se uno dei due partner è stato in precedenza sposato e riceve tale misura di sostegno economico dall’ex coniuge. Di recente, poi, la Corte Costituzionale ha riconosciuto anche ai conviventi di fatto il diritto ai permessi previsti dalla legge 104.
La convivenza registrata
Secondo la definizione della legge Cirinnà «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».
In questo caso la coppia si reca in Comune e “registra” la convivenza, affinché risulti in un normale certificato di «stato di famiglia», al pari delle coppie sposate.
In questo modo i conviventi acquistano determinati diritti come:
la partecipazione all’impresa familiare,
l’obbligo di pagare gli alimenti in caso di fine del rapporto di convivenza;
il diritto a ottenere il risarcimento del danno nel caso in cui qualcuno causi la morte del partner (si pensi a un incidente stradale);
in caso di morte del convivente proprietario della casa, il partner superstite può continuare ad abitare sotto lo stesso tetto per almeno due anni (che diventano tre, se vi coabitano anche suoi figli minori o disabili), «o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni». Quindi se la convivenza è durata più di 5 anni (ad esempio 20 anni), il diritto di abitazione resta comunque di massimo 5 anni.
Questo diritto viene meno se il superstite cessa di vivere stabilmente nell’immobile, si sposa, costituisce un’unione civile o avvia una nuova convivenza.
Se la coppia si separa, non è dovuto l’assegno di mantenimento, ma solo gli alimenti che sono una misura necessaria alla sola sopravvivenza (spese alimentari) nel caso in cui il partener versi in condizioni economiche estremamente disagiate.
Se però ci sono figli, e sempre che gli ex partner non si mettano d’accordo, il giudice può disporre l’assegnazione della casa familiare (cioè il diritto di continuare ad abitarvi) al genitore ritenuto idoneo a vivere con i minori. E ciò anche se l’immobile è di proprietà esclusiva dell’altro genitore. Resta fermo il dovere per l’altro genitore di mantenere i figli e versare loro l’assegno mensile.
Non è previsto l’addebito per il caso di violazione del dovere di fedeltà: in buona sostanza il convivente che tradisce, non subisce alcuna conseguenza.
Contratti di convivenza
Dei contratti di convivenza ci siamo occupati già diffusamente su queste pagine (leggi ad esempio I contratti di convivenza). Si tratta della forma di tutela massima dei conviventi. In tal caso, la coppia, oltre a registrarsi al comune, regola in un documento i rapporti patrimoniali e personali tra i partner, nonché tutti i rispettivi diritti e doveri, anche quelli che la convivenza registrata non garantirebbe loro.
Le parti sono libere di stabilire ciò che preferiscono all’interno del contratto di convivenza, ivi compreso il pagamento di un mantenimento in caso di separazione o la divisione della casa; o ancora la restituzione dei soldi pagati per la ristrutturazione dell’abitazione, ecc.
Il contratto di convivenza dunque è una sorta di contenitore che deve essere riempito dai partners. Esso può riportare l’indicazione della residenza, le modalità di contribuzione alla vita in comune, il regime patrimoniale della comunione dei beni, che nel matrimonio e nell’unione civile è ipso iure, e che può essere modificato in qualsiasi momento.
Cos’è un contratto di convivenza? Si tratta di un atto pubblico (redatto dal notaio) o di una scrittura privata autenticata (da un notaio o da un avvocato). Notaio e avvocato attestano la conformità del contratto di convivenza alle norme imperative e all’ordine pubblico. Chi è ancora sposato e non ha divorziato dal precedente coniuge non può firmare un contratto di convivenza con un’altra persona.
Il professionista che autentica e riceve l’atto deve – entro 10 giorni – trasmetterne copia del contratto al Comune di residenza dei conviventi, per l’iscrizione all’anagrafe.
Se però il contratto di convivenza regola anche diritti sulla casa o altri immobili, nonché su auto, moto o quote societarie deve essere per forza fatto davanti a un notaio, non essendo più competente l’avvocato. Difatti tale atto andrà trascritto nei pubblici registri e, in materia, è competente solo il notaio.
Non esiste un modello standard del contratto di convivenza e ciascuna coppia può scriverlo come preferisce e inserirvi ciò che più fa al caso proprio. Inoltre il contratto può essere modificato in qualsiasi momento.
Eredità e successione
Tra i componenti di una convivenza di fatto, registrata o meno, non nasce alcun diritto all’eredità: né alla quota di legittima, né alla chiamata ereditaria (qualora non vi sia testamento). Invece, nel caso delle unioni civili (quelle tra persone dello stesso sesso), posta la totale equiparazione alle coppie sposate, spettano i diritti successori.
L’unica garanzia è il diritto di abitazione della casa di cui abbiamo parlato poc’anzi.
Neanche il contratto di convivenza può supplire a questa circostanza, visto che è vietato per legge impegnarsi in anticipo a fare testamento in favore di una determinata persona. L’unico modo per il convivente di poter accampare diritti sull’eredità del partner è sperare che questi lo inserisca nel proprio testamento, limitatamente alla quota disponibile (ossia quella che non deve andare ai legittimari). I legittimari sono: coniugi o componenti di un’unione civile, discendenti e – in loro mancanza – ascendenti; questi, come noto, non possono esser privati della loro “quota di riserva”(neanche se c’è la volontà del defunto).
[1] L. n. 76/2016.
Fonte: la legge per tutti
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